"La mia vita da Infermiere prima di Aldo, Giovanni e Giacomo"

Lo abbiamo visto in tanti sketch nei panni del chirurgo o del medico generico, ma non potevamo immaginare che Giacomino Poretti, in arte Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, avesse frequentato le corsie d’ospedale lavorando come infermiere per 11 anni. Turni in corsia, iniezioni e terapie prima del successo e del cinema. A raccontare il suo passato professionale è stato proprio lui nel monologo “Chiedimi se sono di turno”. Uno spettacolo inedito presentato a una platea particolare, quella degli infermieri presenti al Congresso nazionale svoltosi a Roma, all’Auditorium Parco della Musica a Roma .
Proprio uno dei suoi film più conosciuti, “Chiedimi se sono felice”, ha fornito l’idea per il titolo di questa esibizione che è stato per lui un’occasione per ricordare i tanti anni trascorsi nel mondo della sanità, dove è diventato anche caposala. Un periodo faticoso in cui non dimenticava il sogno e, fra un turno di lavoro e l’altro, è riuscito a diplomarsi alla scuola di Teatro di Busto Arsizio.
Quando inizia la sua esperienza di infermiere? Che studi ha fatto e perché scelse questa strada? 
“Ho iniziato a lavorare in ospedale a 18 anni per caso: dopo le scuole medie andai in una fabbrica, ma ad un certo punto chiuse e mi si prospettò il rischio di dover partire come militare. Fu allora che trovai lavoro nell’ospedale di Legnano e decisi così di frequentare il corso triennale per diventare infermiere professionale”.
Per quanto tempo ha lavorato come infermiere e in quali reparti? 
“Mi sono fermato all’ospedale civile di Legnano per 11 anni fino ai 29 anni e dopo ho intrapreso la strada dello spettacolo. Ho girato tantissimi reparti: traumatologia, ortopedia, neurologia e anche oncologia per cinque anni. Poi sono diventato anche caposala… “
La professione dell’infermiere è molto faticosa anche dal punto di vista emotivo: che cosa le piaceva di più di questo mestiere e cosa di meno?
“Effettivamente è un lavoro molto faticoso e lo era ancora di più nel ’74 quando lo facevo io: in quegli anni le corsie degli ospedali erano piene di ammalati e non c’erano tutte le innovazioni arrivate oggi. Soprattutto quando lavoravo in traumatologia era molto faticoso a livello fisico perché dovevo sollevare pazienti che avevano poca o nessuna mobilità a causa di una frattura. E poi quando lavori su turni, spesso massacranti come quelli dell’infermiere, hai una vita sociale un po’ particolare e non puoi vivere allo stesso ritmo degli altri. Nello stesso tempo, però, mi ha sempre affascinato il mondo della medicina e della cura, l’aspetto tecnico della professione e naturalmente il rapporto con le persone, il lato umano del prendersi cura. Considero quello dell’infermiere uno dei lavori più belli. Uno di quelli con un impatto umano davvero incredibilmente alto”.
Poi ad un certo punto, dalle corsie d’ospedale è passato al palcoscenico: come e quando è avvenuto il passaggio da infermiere ad attore?
“Il teatro è sempre rimasto sullo sfondo della mia vita. L’avevo conosciuto nell’oratorio della chiesa grazie ad un sacerdote che mi aveva coinvolto in vari spettacoli, ma era solo un gioco. Poi quando sono diventato caposala, mi sono iscritto ad un corso serale di recitazione finché è arrivata l’occasione di fare qualcosa di serio. Mi sono licenziato dall’ospedale nel 1985 e poi ho iniziato una gavetta intensa prima di arrivare al successo nel ’94 con la prima edizione di “Mai dire gol””.
C’è un episodio o un paziente che ha incontrato nella sua ‘carriera infermieristica’ e che le è rimasto particolarmente impresso? 
“Ci sono tanti ricordi, specie degli anni che ho trascorso nel reparto di oncologia dove purtroppo ho visto morire molte persone anche perché in quegli anni le terapie non erano così efficaci come quelle di oggi e certe malattie erano imbattibili. Mi ricordo, per esempio, di aver vissuto la morte di diversi pazienti affetti dal Linfoma di Hodgkin come se fossero dei miei amici perché una delle cose più difficili di questo lavoro è il distacco emotivo”.
Ma i suoi pazienti si sono divertiti almeno un po’?
“Quando si sta male e soprattutto quando si viene colpiti da certe malattie, non si ha nessuna voglia di ridere. Perciò, a volte è meglio star zitti e far capire all’altro che si è solidali. Sicuramente grazie a questa esperienza ho sviluppato una maggiore empatia perché ho imparato a comprendere le diverse reazioni che ciascuno può avere di fronte alla malattia che rende tutti fragili ma qualcuno reagisce lasciandosi andare alla depressione, qualcun altro, invece, è sempre incavolato. E l’infermiere entra in una relazione particolare con ogni paziente e ne assorbe gli umori. Il rischio può essere quello di diventare dei super-cinici e quindi sgradevoli oppure di sviluppare empatia”.
A parte il monologo “Chiedimi se sono di turno”, questa sua esperienza ha mai avuto qualche influsso sulla sua vita da attore? 
“In qualche modo sì perché in teatro ho interpretato varie volte il ‘malaticcio’ e poi mi piaceva introdurre negli sketch la terminologia medica e soprattutto i nomi di alcune malattie magari non notissime come il morbo di Dupuytren, una malattia tendinea della mano che provoca la flessione permanente di uno o più dita verso il palmo della mano. Tra i tanti sketch, ricordo quello in cui, insieme ad Aldo e Giovanni, ci fingevamo chirurghi”.
Qualche battuta tratta dal monologo “Chiedimi se sono di turno”?
“Le frasi più applaudite sono state: “la notte appartiene agli infermieri, solo loro ne capiscono il mistero”; “la manovra infermieristica più difficile è da sempre svegliare il medico di guardia”; “la storia delle professioni è importante, non dimenticate da dove arrivate””.
Fonte: larepubblica

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