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Stress infermieristico nelle strutture sanitarie: studio osservazionale

La storiografia sanitaria traccia lo stress come nozione che si delinea in progress. Nella metà dell’800, il fisiologo francese Claude Bernard formulò la “costanza del mezzo interno” quale condizione di costante equilibrio cellulare nel corpo umano, mantenuta mediante “barriere fisiologiche di risposta” agli stimoli esterni (Bernard, 1868; Holmes, 1963). Successivamente Cannon (1935) la identificò con l’omeostasi (Cooper, 2008).

Hans Hugo Bruno Selye (1956), con una serie di esperimenti, eseguiti su dei ratti alla McGill University di Montreal, dimostrò che le cavie, di seguito a ripetute stimolazioni psico-fisiche, sviluppano sintomi quali ulcere peptidiche, atrofia dei tessuti del sistema immunitario, ingrossamento delle ghiandole surrenali, quale risposta fisiologica agli stimoli esterni (stressors), in grado di modificare l’omeostasi interna. Egli descrisse lo stress come una SGA – Sindrome Generale di Adattamento, che si sviluppa in tre fasi: il primo passo è la sfida o l’allarme, quale allerta come alla comparsa di un aggressore; il secondo passo è la resistenza, caratterizzata dall’impegno del corpo nel gestire la sfida; l’ultimo passo è l’esaurimento, con alterazioni permanenti di tipo neuro-psico-fisico-relazionali, per l’inadeguatezza delle risposte di controffensiva.

Tra gli anni ’50 – ’70, lo studio si è concentrato sulla reazione dell’organismo a fronte di minacce “fisiche”; quindi, l’attenzione è stata portata sulle minacce “simboliche”, eventi di vita stressanti, come separazioni affettive, perdita di una persona cara, attesa di un intervento chirurgico, perdita di lavoro o di ruolo, umiliazioni, carcerazione, esame diagnostico, pensionamento ecc.

Nella sfera delle professioni, la European Agency for Safety and Health at Work, nel 2000, ha definito lo stress lavoro-correlato come “la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste”.
Mentre uno stress moderato può consentire di innescare un’adeguata soglia di attenzione e di reagire in modo efficace ed efficiente alle esigenze dell’ambiente, un’esposizione prolungata a fattori stressogeni può essere fonte di rischio per la salute dell’individuo, sia di tipo psicologico che fisico, riducendo l’efficienza sul lavoro e procurando assenteismo, malattia, richieste di trasferimento (McGowan, 2001; Shader et al., 2001; Lu, Zhao, & While, 2019).
L’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004 caratterizza la sindrome quale “condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale ed è conseguenza del fatto che taluni individui non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro” (art. 3, comma 1).

In Italia, il termine “stress lavoro-correlato” è stato introdotto formalmente dall’articolo 28 del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (Decreto legislativo n. 81 del 9 aprile 2008), il cui comma 1 prevede che la valutazione dei rischi, di pertinenza del datore di lavoro in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione e del Medico competente, debba tener conto anche dello stress lavoro-correlato.
Non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro sono da considerare, tuttavia, lavoro-correlate; la sindrome si produce da cause specifiche del contesto e del contenuto del lavoro.

La letteratura elenca molti stressors sul lavoro (Frasca, 2001):
– Quantità di lavoro assegnata, eccessiva o insufficiente;
– Tempo ridotto per portare a termine il lavoro in modo soddisfacente, sia per gli altri che per sé stessi;
– Mancanza di una chiara descrizione del lavoro da svolgere o della linea gerarchica;
– Mancanza di apprezzamento o di ricompensa per la buona prestazione professionale effettuata;
– Impossibilità di esprimere lamentele;
– Responsabilità gravose, non accompagnate da potere decisionale adeguato;
– Superiori, colleghi o subordinati non disponibili a collaborare o a fornire sostegno;
– Mancanza di controllo o di giusto riconoscimento del prodotto finito del lavoro;
– Precarietà del posto di lavoro, incertezza della posizione occupata;
– Essere oggetto di pregiudizi riguardo all’età, al sesso, alla razza, all’appartenenza etnica o religiosa;
– Essere oggetto di violenza, di minacce o di vessazioni;
– Condizioni di lavoro sfavorevoli o lavoro fisico pericoloso;
– Scarsa opportunità di esprimere talenti e capacità personali;
– Evenienza che un piccolo errore o una disattenzione occasionale possano determinare conseguenze gravi o disastrose;
– Ogni combinazione dei suddetti fattori.

Lo stress lavoro-correlato può virare verso il burnout, sindrome definita da Maslach, (1976) come caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione o disinteresse verso i pazienti, riduzione delle prestazioni lavorative.
Stress e burnout sono sindromi distinte, poiché lo stress presenta sempre uno specifico quadro psico-fisico, mentre il burnout si caratterizza maggiormente per i risvolti psicologici ed emotivi (Molinaro, 2012); lo stress rappresenta una reazione di adattamento suscettibile di rientrare nella norma, mentre il burnout difficilmente rientra, gravando sulla persona per un periodo lungo (Schaufeli & Enzmann, 1998), dato che il lavoratore si percepisce senza vie d’uscita e senza elementi di moderazione (Cherniss e Krantz, 1983; Del Rio, 1990).

Cherniss (1992) afferma che lo stress costituisce la fase estrema dello stress, quando l’operatore si difende da un eccesso di esaurimento emotivo, con un ritiro dal coinvolgimento emozionale ed emotivo verso i pazienti (depersonalizzazione).

Maslach stessa, che inizialmente aveva invocato la fragilità individuale al burnout (1976), successivamente elabora un modello “oggettivo”, organizzativo, ordinando le cause del burnout in sei classi: carico di lavoro, autonomia decisionale, gratificazioni, senso di appartenenza, equità, valori (Maslach e Leiter, 1997).
Santinello (2001) descrive il burnout come lo stato finale di un lungo processo di “disillusione” che può nascere dalla discrepanza “esistenziale” tra aspettative e risultati ottenuti sul lavoro.

Il presente studio, assumendo una parziale sovrapposizione tra stress e burnout, si propone di misurare la sindrome nel lavoro svolto da infermieri nelle unità operative di Lungodegenza (LG), Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) e Riabilitazione Neuromotoria (RNM) di una Casa di cura privata accreditata del Centro Italia, identificate quali Strutture per le Cure Intermedie (SCI) prima dall’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) e poi dal Ministero della Salute con il Decreto ministeriale n. 70/2015, in quanto deputate alla stabilizzazione/recupero funzionale del paziente fragile, unitamente alla gestione più appropriata delle degenze ospedaliere (prevenire i ricoveri ospedalieri inappropriati, garantire la continuità assistenziale in uscita dall’ospedale).

METODI
Un’indagine è stata condotta con gli infermieri operanti nella Casa di Cura, durante il mese di dicembre 2022.
Il disegno dello studio è osservazionale, trasversale, monocentrico. È stato consegnato, per autosomministrazione, in formato cartaceo, il “Questionario sullo stress lavorativo e burnout” di Beverly Potter (2005), che si compone di 25 item, con opzione di risposta su scala Likert da 1 “raramente” a 5 “continuamente”, integrato da una sezione per la raccolta dei dati sociodemografici, rispettando l’anonimato.

Nella consegna e nella restituzione dello strumento, è valsa la collaborazione dei coordinatori delle unità operative. Il punteggio totale si distribuisce in un range tra 25 a 125 punti:

  • Da 25 a 50 punti, il soggetto non è a rischio di sviluppare stress lavoro-correlato;
  • Da 51 a 75 punti, il soggetto è considerato a rischio di stress lavoro-correlato;
  • Da 76 a 100 punti, il soggetto è considerato in una condizione di stress, con la possibilità di sviluppare la sindrome di burnout;
  • Da 101 a 125 punti, il soggetto è in una condizione di forte stress lavorativo e con un forte rischio di burnout o questa sindrome è già in atto.

I dati sociodemografici e le frequenze assolute dei soggetti esaminati entro le fasce di punteggio sono stati processati con pacchetto Excel; le caratteristiche psicometriche del Questionario con pacchetto SPSS.

RISULTATI

Il campione arruola la totalità degli infermieri in servizio, tranne 4 unità in LG, che non hanno partecipato alla compilazione del questionario ricevuto, ed è costituito da 34 soggetti, di cui 12 operativi in RSA, 8 in Lungodegenza (LG) e 14 in Riabilitazione neuromotoria (RNM). La composizione socio-demografica rileva per genere 14 maschi e 20 femmine; per età anagrafica la media di 43,6 anni (min 23 – max 62); per periodi di servizio 15,1 anni (min 1 – max 35); per stato civile 22 coniugati, 7 single, 5 separati/divorziati.

L’elaborazione dei dati ha restituito un elevato coefficiente di affidabilità, alpha di Cronbach pari a 0,951 che indica l’omogeneità delle 25 affermazioni nel misurare la dimensione enunciata dallo strumento. La distribuzione del contingente per fasce di rischio colloca la gran parte del personale in area di nessun rischio, seguito da un numero decrescente di soggetti a rischio incipiente e in stato di stress con possibilità di sviluppare burnout, mentre nessun individuo accusa una sintomatologia di manifesta sindrome di burnout (Tabella 1).

TABELLA. 1 – Frequenze assolute per fasce di rischio.
No rischioA rischiovs BurnoutBurnout
RSA7320
RNM6530
LG2330
Tot.151180

Nella figura 1, lo stesso andamento di frequenza in decremento di rischio si presenta per la RSA e la RNM, ma non per la LG. Confrontando, inoltre, le frequenze per unità operativa, si osserva come le barre del minor rischio siano più alte nella RSA e nella RNM, mentre i valori della LG hanno una configurazione che protende verso il maggior rischio di burnout.

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L’Infermiere Online – sito istituzionale FNOPI

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